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6 - Civago Leggenda tradizione poesia

CIVAGO NELLA LEGGENDA - NELLA TRADIZIONE - NELLA POESIA

CURIOSE STORIE DI CIVAGO

Premessa

Anche se scarso di storie importanti - e come può averne un paese formatosi nel secolo sedicesimo per iniziativa di un piccolo stuolo di pastori - Civago ha avuto ugualmente le sue piccole storie e le sue leggende. Si tratta di eventi, alcuni realmente accaduti, altri volutamente ingigantiti dalla fantasia popolare per rendere più intriganti ed avvincenti le serate trascorse "a veglia" dai Civaghini nelle lunghe notti invernali.
Strani accadimenti, tramandati per via orale da padre in figlio, pervenuti sino a noi grazie alla curiosità, alla sagacia e alla limpida penna di un noto studioso della storia del nostro appennino: il Prof. Umberto Monti di Cervarolo.
Le tradizioni popolari costituiscono il patrimonio più prezioso per una Comunità che cerca sempre nuovi stimoli per rinnovarsi e per mantenersi viva e vitale nel tempo.
Sono particolarmente lieto di poter affidare alle pagine che seguono il racconto di alcune di queste storie, certo di risvegliare, in quei Civaghini che vorranno dedicare un po' del loro tempo alla lettura di queste brevi note, la consapevolezza di essere anch'essi gli eredi degli antichi abitanti dell'appennino reggiano. Quei "Lombardi" dalla barba d'oro che guadagnavano le rampe e si spingevano sui culmini per scendere poi nella terre della Toscana a trovar il lavoro che veniva loro negato dalla stagione imperversante e dall'asperità dei luoghi.
Emergono più dal cuore che dalla memoria i bellissimi versi del Pascoli che avrebbero dovuto figurare incisi (decisione poi disattesa) in una lapide posta sotto l'orologio della Torre Campanaria della Chiesa di Civago:
"Lombardo prendi su la scure "da Civago e da Carù "è tempo di passar le alture "tieni'asu, tient'asu, tient'asu.
Ma ecco le storie.

La leggenda  dei lupi

In un freddo inverno di circa 2 secoli e mezzo or sono, si ebbe in Civago una invasione di lupi. Questi animali sono del tutto scomparsi nel nostro appennino, e comunque su tutto l'appennino settentrionale.
E' stato accertato recentemente un ritorno - un felice ritorno!   -  del lupo nell'Appennino centro-meridionale, precisamente nel Parco Nazionale d'Abruzzo.
Tornando a quel tempo e alle nostre montagne, i lupi allignavano numerosi in mezzo alle fratte più alte, entro certo caverne naturali, sui crinali più dirupati. Si contò, dunque, una invasione vera e propria. I pastori accendevano sugli spiazzi, davanti alle capanne e alle baite dei fuochi per tenerli a distanza.
Il caso volle che uno di questi pastori possedesse un cane lupo irriducibilmente selvaggio. Faceva sì la guardia, ma a volte, riprendendo la sua natura avita, diventava terribile anche per il gregge del padrone.
Una notte, mentre l'uomo giaceva nel sonno, e un rimasuglio di fiamma lingueggiava a protezione dell'ovile, situato nei pressi di Case Cattalini, il cane avvertì che i lupi erano nelle vicinanze. D'un tratto, dimenticando il suo dovere, si sentì fraterno con essi. Siccome, in precedenza, era caduta molta neve, si diede rapidamente a menare colpi di coda sulla neve prossima al fuoco, con l'intento di spegnerlo. E vi riuscì tanto che i lupi, entrati nell'ovile, sbranarono buona parte delle povere pecore.

Un vecchio e le sue pratiche magiche

Si racconta anche di un vecchio, morto oltre 150 anni fa, il quale si aggirava sulle nostre montagne praticando arti magiche. Affilava, per esempio, coltelli e rasoi senza adoperare la mola, ma semplicemente percorrendoli lungo il taglio con il pollice e l'indice. Faceva passare il filo nella cruna dell'ago quando era perfettamente al buio. Comandava alle campane di suonare senza che alcuno le spingesse.
Un giorno, giù al Riaccio, torrente che segna il confine con il modenese, incontrò alcuni operai civaghini intenti a smuovere un enorme masso da trasportare sulla riva per farne argine. Prova e riprova essi non riuscivano e non sarebbero certo mai riusciti nell'intento poiché la pietra, oltre ad essere enorme, si abbarbicava a fondo nella terra.
Calava, intento, la sera e quelli, sfiduciati, stavano per allontanarsi. Il mago, allora, fattosi più da presso, così parlò: lasciate in pace quel sasso, tanto non ce la cavate. Andate, piuttosto, a casa che vi aspettano le donne. Domani mattina il sasso sarà dove volete che sia.
Uno di quelli, rivolgendosi al vecchio tra il serio e il faceto, gli chiese: ma chi mai sei tu da comandare ad una forza ben maggiore delle nostre messe insieme? H vecchio rispose: "ciò non vi riguarda, ma domani saprete chi, in effetti, io sia". All'indomani, all'ora stabilita, il grande masso era sulla sponda, collocatovi con bell'arte. Da quel giorno, del vecchio non si ebbe più traccia.

I tesori della torre dell 'Amorotto

Anche la Torre dell'Amorotto ha le sue leggende. Si è sempre parlato di un antico tesoro sepolto ai suoi piedi. Ma, guai a chi avesse tentato di impossessarsene. Una volta, per scommessa, due baldi giovani della Romita si incaponirono nell'impresa. Fattosi buio profondo, con piccone e badile, incominciarono a scavare. Già credevano di essere a buon punto, allorché una immensa fiammata bituminosa si sprigionò dalla buca, avvolgendoli in un filmo infernale e costringendoli ad una fuga precipitosa.
A lungo vagarono sui pendii circostanti urlando e sperdendosi. Furono trovati il mattino dopo, tramortiti a terra, neri come il carbone e senza parola. Quando, dopo qualche tempo, poterono esprimersi fecero capire che il diavolo li aveva assaliti, rimanendo alle loro calcagna tutta quella notte di tregenda.
Intorno alla Torre dell'Amorotto si favoleggia anche questo: nelle notti di luna piena, quando la sottostante vallata sembra illuminata a giorno, e il fiume corre laggiù luccicando, come una fascia di mercurio, un caprone dalle forme gigantesche si aggira per quei ruderi. Qualcuno afferma di averlo visto in varie occasioni e spiega che l'animale fa la guardia al famoso tesoro.

Il Campanile fantasma

Si dice che le campane dell'antico Ospizio di S. Leonardo del Dolo sprofondarono unitamente alla costruzione a causa di geni malefici.
Orbene, quando è Natale e tutte le cose si coprono di neve e di silenzio, chi passa nottetempo per lassù, ode venire da sotto terra vibrazioni fioche, ad intermittenza, di bronzi misteriosi.

I misteri di Casa dell 'Abate

Quando si percorreva a piedi il sentiero che da Civago conduceva a Piandelagotti, dopo passato il ponte sul Dolo, si incontrava - e si incontra tutt'ora - un caseggiato che viene ancor oggi chiamato "Casa dell'Abate". Si narra che un tempo tale località era abitata da un eremita assai vecchio, dalla grande zazzera bianca, che tremava per tutta la persona alta e ossuta e camminava reggendosi ad un grosso bastone. Era della progenie dei giganti e viveva così solitario, cibandosi di radici e di erbe.

La notte il vegliardo usciva sempre solo con un lungo cannocchiale per interrogare le stelle.
Per la verità oggi possiamo tranquillamente dire che il vecchio dalla zazzera bianca altri non era che Giuseppe Caniparoli, vissuto ai primi dell'ottocento, civaghino di nascita, Abate di Montefiorino, docente presso le scuole di tale paese e uomo di vasta e profonda cultura. Studioso d'astronomia, nelle notti stellate usciva di casa munito di un semplice cannocchiale per scrutare astri e costellazioni.
La prima versione del vecchio di Casa dell'Abate è ricca di fascino e di mistero, la seconda, anche se più prosaica, fa parte della storia di Civago, storia in cui l'Abate Joseph Caniparoli (così si firmava) trovò un posto di grande rilievo sia per le indiscusse doti mostrate nel campo dell'insegnamento, sia per quelle che gli furono riconosciute nel magistero ecclesiastico.

Amore e morte

Agli albori dell'800, sul piazzale del paese, antistante la Chiesa ed il cimitero, davano ombra alcuni castagni di rispettabili dimensioni. Ad uno di questi alberi - narra la tradizione - venne impiccato un giovane pastore.
Cosa era accaduto? In quel tempo torme di contrabbandieri infestavano l'appennino reggiano e modenese. Questi, inseguiti dalle guardie ducali, si vedevano sovente costretti ad assalire i viandanti e le case per non perire di fame. Ora, quel giovanotto fu visto una notte introdursi furtivamente in un abituro isolato assai lontano dal centro del paese. Individuato da una spia dei gendarmi,lo sventurato ragazzo fu preso e sommariamente giustiziato come ladrone, anche perché il malcapitato non aveva mai mosso verbo per provare la propria innocenza. Soltanto molto tempo dopo si venne a conoscere la verità. Era accaduto che quel povero disgraziato era andato a trovare, in assenza del marito, una giovane sposa che frequentava da tempo.
Se avesse detto la verità avrebbe avuto salva la vita. Ma tacque per salvare l'onore della sua amata e andò incontro al suo destino con stoico coraggio.
Il cadavere rimase esposto per 2 giorni, crudele monito alla popolazione e ai viandanti che transitavano da quelle parti. Si vuole che, appena giustiziato, si scatenasse in Civago un violento uragano.
Cessato il temporale, un iridato raggio di sole avvolse la salma ancora calda. In quel raggio la gente vide il volto lacrimante e sanguinante del Redentore che era venuto a ricevere l'anima di quell'intrepido giovane. Il fatto avvenne nell'estate del 1810; il giovane, che proveniva dalla borgata "Case di Giammarco", si chiamava Domenico Fioravanti.

Don Rossi - Rettore di Civago - Duchista e mago

II Duca Francesco V° fu a Civago il 27 agosto 1849. alloggiando nella Canonica di Civago. In un capitolo a parte abbiamo dato ampio risalto a questo straordinario avvenimento.
Com'è noto, il Duca consentì la cessione alla Chiesa di Civago di un appezzamento di terreno e di un casolare (noto agli abitanti di Civago come la "casa del prete"), ubicati in località "Case del Dolo".
Come sappiamo era prevosto in quel tempo Don Rossi. L'affabilità del Duca, il grazioso dono fatto alla Parrocchia e, soprattutto, quel sonoro bacio che sua altezza stampò, alle Radici, sulla fronte dell'esterrefatto Rettore, fecero sì che costui, per i restanti anni di sua vita, diventasse un convinto e acceso sostenitore del ripristino della sovranità estense nei nostri tenitori, sovranità che l'unità d'Italia, realizzata nel 1859/60, aveva spazzato via per sempre.
E fu lui, il nostro Don Rossi, che il 15 agosto 1859, da una finestra di Ferdinando Lunardi in S. Pellegrino, lesse alla folla, che gremiva la piazza, una lettera in cui si annunziava l'imminente ritorno di Francesco V°, traendo da ciò argomento per invitare quei montanari a gridare: "VIVA IL DUCA"!
Queste parole, ovviamente, produssero un po' di tafferuglio, durante il quale le guardie civiche dell'appena sorto Regno d'Italia venivano disarmate e condotte negli Alberghi, dove anch'esse furono costrette a gridare: Viva il Duca!
Il giorno dopo, soldati e carabinieri venuti da Castelnuovo Monti e da Montefiorino, trovarono 2 individui di S. Pellegrino con la coccarda di Francesco V° e li arrestarono. Processati, ebbero 1 anno di prigione. Anche Don Rossi fu arrestato e condotto a Modena e rilasciato dopo qualche tempo.
Tornando al nostro Don Rossi, nella sua qualità di Prevosto di Civago, sappiamo che egli rimase alla guida della Parrocchia del paese per oltre 40 anni. Di lui si diceva che fosse un gran burlone e che, nel tempo libero, si dedicasse ad ammannire burle ai suoi amministrati. Ma, nel ricordo, rimane, soprattutto, il suo supposto contatto con gli spiriti dell'aldilà.
Si disse che in qualche occasione, egli abbia compiuto dei veri prodigi, o ritenuti tali. Nel solaio della canonica, ad esempio, custodiva gelosamente, assicurati a catene, dei libri misteriosi che egli, scoccata la mezzanotte, andava a consultare; alcuni vecchi civaghini hanno giurato di aver sentito lo "sferragliare" di quelle catene nelle silenziose e calde notti d'estate, anche in assenza del Parroco.

Qualcuno rimase turbato a lungo per questo particolare. E' bene sottolineare che nessuno ha mai ritrovato quei diabolici volumi, ai quali soltanto don Rossi poteva avvicinarsi.

TRADIZIONI POPOLARI

Le "Rogazioni" in Civago

II rito delle rogazioni in Civago, sino a qualche anno fa, aveva una durata di 3 giorni e veniva celebrato con grande solennità.
Attualmente, per ragioni di praticità, il rito dura un solo giorno e si tiene in occasione della festa dell'Ascensione. In rapida sintesi ci preme rammentare, a futura memoria, le varie fasi in cui si svolgevano, sino a qualche tempo fa, i momenti di questa cerimonia religiosa.
Il rito si celebrava per due giorni all'aperto, presso le varie borgate del paese, e si concludeva in occasione della festività dell'Ascensione con una cerimonia solenne che si teneva, nel terzo giorno, in parte sul Sagrato e in parte all'interno della Chiesa stessa.
La cerimonia era preceduta da una intensa fase preparatoria consistente nell'addobbo della "Maestà" da parte della popolazione tramite arredi, fiori, candelabri e quant'altro potesse conferire lustro e solennità agli agresti altarini.
La cerimonia consisteva in una vera e propria processione che vedeva in testa, ovviamente, il Sacerdote calato nei paramenti delle grandi occasioni, seguito dall'intero paese. Spiccavano, tra i partecipanti, i membri della "Confraternita del Sacro Cuore" con le loro tuniche immacolate, interrotte, in alto, dal rosso delle mantelline.
La processione partiva dalla Chiesa per portarsi presso le "Maestà" della borgata più lontana del paese (Casa Andreine). Nel primo giorno si visitavano le Maestà di 14 borgate; nel secondo si completava il giro con le restanti 13 per finire con la borgata della Costarsa. Il Sacerdote impartiva la benedizione alla case pronunciando la formula rituale in latino che recitava: "liberaci, oh Signore! Dalla peste, dalla fame, dalle guerre, dal flagello del terremoto, dai fulmini, dalla grandine". La rogazione proseguiva con una richiesta che riguardava il raccolto: oh Signore! Degnati di elargire, moltiplicare e benedire i frutti della terra.
Invocazioni di antico sapore pagano, che si perdono nella notte dei tempi. Richieste pregnanti, semplici. Allontana i cattivi eventi, assicuraci il raccolto, salvacondotto di sopravvivenza. I tempi erano duri, difficili; l'intervento dall'Alto era ritenuto indispensabile, vitale.

La befana in Civago

Diverse decine di anni fa, quando il paese era ancora ricco di energie giovanili, i Civaghini sentivano molto la ricorrenza della festa della Befana.
Nella notte tra il 5 ed il 6 di gennaio, gruppi di giovani si recavano davanti alle porte delle case dei compaesani per cantare simpatici motivi popolari con cui si porgevano gli auguri di una buona befana e nello stesso tempo si chiedeva al padrone di casa di offrire, assieme ai rituali dolci natalizi, qualche bicchiere di buon vino toscano. Questi rispondeva quasi sempre cantando, aiutato da endecasillabi in rima nello stile dello "strambotto" toscano. Dopodiché invitava i giovani in casa per brindare alla befana ed all'anno appena iniziato.

Il carnevale in Civago

Fiaschi di vino e frittelle, dal forte sapore di pecorino, costituivano i veri ingredienti di questa ricorrenza. Non si partecipava a Veglioni mascherati per il semplice fatto che in paese non esistevano locali da ballo, elementi indispensabili per realizzare serate del genere. Ci si limitava, nella notte del martedì delle ceneri ad accendere dei grandi fuochi con ginestre e ginepri, riesumando un antico rito pagano. Le fiamme, che volevano annunciare l'ingresso dell'imminente quaresima, si levavano alte nel ciclo dagli spiazzi di ogni borgata del paese e andavano ad unirsi ed a mescolarsi ai fuochi di altre comunità, le quali, sparse nei dintorni, facevano sentire anch'esse la presenza ed il calore delle loro tradizioni.
Sempre nella giornata del martedì delle ceneri, verso la mezzanotte, il silenzio era rotto dal suono di un corno che proveniva da una delle borgate. Una dopo l'altra e senza sovrapporsi, le altre borgate rispondevano. Nell'antichità l'accensione di fuochi e l'emissione di suoni costituivano i mezzi più idonei per segnalare l'imminenza di un pericolo. Riteniamo che, nel nostro caso, la segnalazione è riferita all'inizio dei quaranta giorni di penitenza che attendono il buon cristiano prima della Pasqua.
I nostri vecchi hanno sempre sostenuto che tutti in quei momenti sentivano la necessità di scambiare con gli altri un cenno d'intesa. In quei momenti il paese si ritrovava e ritrovava la sua unità e la sua forza.
C'era poi sempre qualche giovane che, approfittando della serata particolare, cercava di avvicinare la ragazza su cui da tempo aveva posato gli occhi.

PER L'INAUGURAZIONE DELLA STRADA IN CIVAGO

    Qui dove il fiore della vita tardi
    si sviluppò, tra i castagneti folti,
    una diana festiva ci ha raccolti
    col richiamo di musiche e stendardi.

Qui per opra di muscoli gagliardi
e di potenti ingegni, su sconvolti
massi è giunta la strada che per molti
anni fu sogno e or ride ai nostri sguardi.

    Qui genio ed arte si son baciati
    in un felice amplesso e l'incorona
    l'alpe con i suoi fiori profumati.

E scende da quei culmini giganti
una voce che a nuovi ardir ci sprona;
qui si onora l'Italia: avanti! avanti!

Umberto Monti

CIVAGO

Nel desiderio ho sempre una villetta
bianca, che sbuca dai castagni attorno:
davanti ha una spalliera di bei monti,
ai piedi il verde di pratine,
sopra il gioco delle nuvole e del sole.

E' rallegrante come una fanciulla,
ed al soggiorno invita col ristoro
che reca il venticello giù dai boschi,
e col silenzio del vicino borgo.

Rompe la quiete, a valte, una campana
dalla parrocchia anch'essa solitària,
a cui tien dietro il dindolia di greggi
sparsi negli alti pascoli, il garrire
di rondineIle, l'abbaiar d'un cane
alla lepre che fugge, e il secco sparo
d'un cacciatare là da quella balza.

Ti saluto, Civago, che dell'Alpe
il giardin m'appari nella conca
vegliata dai giganti aspri, solenni:
Beccara, Roncadello, Giovarello,
e il Ravino fantastico, scogliera
di precipiti massi sulle fredde
acque del Dolo, albergo delle trote.

Detergere vorrei l'anima in te,
dolce Civago, e ritornarla schietta
come la fede dei pastari tuoi,
che vanno e vanno e non si sazian mai
di conquistare vette ed orizzonti.

ARMANDO ZAMBONI


Civago

D'inverno il mio paese riesce a stento
fra l'alta neve a fare capolino;
sembra un abbandonato monumento
precipitato giù per il Ravino.

        D'estate, quando spira un po' di vento
        somiglia invece a un vispo ragazzino
        che non riesce a star fermo un sol momento
        e gioca in mezzo al verde a nascondino.

E' quieto, è gaio, è come lo si vuole
coi suoi prati nell'ombra e il lieve lieve
frusciar del fiume tra maestose gole.

        Coi sogni d'una strada, la sua neve
        e le cime svettanti in mezzo al sole
        e un'acqua che rivive chi ne beve.

Ralfo Monti


Invito a Civago

Lasciate il solleone o villeggianti
e l'afa che vi opprime negli uffici
e venite a Civago tutti quanti
dove trascorrerete ore felici.
Le ombre nostre che ammiccano agli amanti
le osterie che rallegrano gli amici,
il fiume che promette buona pesca
vi aspettano vestiti d'aria fresca.

        Volendo un'iniezione di morale
        che vi tolga dal cuore ogni amarezza
        venite all'acqua che non sa di sale
        ed è leggera come una carezza.
        Qui non berrete l'acqua minerale
        che tanto fa parlar di Cervarezza
        ma quella imbottigliata da poche ore
        alla magica fonte dell'amore.

Se non volete andare sul Ravino
e sdegnate di scalare il Giovarello
ecco il Parco dei Principi al Canino,
e se trovate scomodo anche quello
vi potrete sedere all'Appennino
sulla veranda di ultimo modello
e ammirare se ci trovate svago
il più bel panorama di Civago.

        La Penna occhieggia maliziosamente
        all'alpinista, come un'amorosa
        che si comporta dispettosamente
        ragion per cui nessuno se la sposa.
        Ma se qualcuno molto intraprendente
        vuol conquistarla, troverà la cosa
        piena di rischi e degna d'emozioni
        come nemmeno un modulo Vanoni.

Giù, spumeggiando in assolate gole
il torrente dall'acqua cristallina
è certamente quello che ci vuole
alla bella e moderna signorina
cui piace tanto far baciare al sole
l'epidermide là dov'è più fina:
e il sole nostro è tanto bello e puro
che alcune san trovarlo anche allo scuro.

        Comunque ecco per chi non ama i raggi
        del sol che nasce sopra il Roncadello
        i nostri castagneti e i nostri faggi
        dove svolazza il merlo ed il fringuello,
        e dove piluccando frole e baggi
        scoprirete signori quanto è bello
        riposarsi d'estate almeno un mese
        in questo tranquillissimo paese.

Ralfo Monti


Al Prof. Dott. Umberto Monti

Diletto amico, quando per la via
che tanto desiasti passerai,
quando da Cervarolo salirai
verso Civago ch'è la patria mia,

sotto la torre d'Amorotto, pria
che il limite ne varchi, troverai,
seduto ad aspettarti sotto i rai
del sol, l'amico in dolce attesa e pia.

Ei ti dirà: Le tue querele cessa,
quella montagna che cotanto amasti,
ecco, per te ha la strada, e già per essa

la civiltà cammina: ecco I'aurora:
è fatto vita ciò che tu sognasti.
Verrà il meriggio nel tuo nome ancora.

Sante Romiti

CIVAGO

Esulta, Reggio, poiché finalmente
sui tuoi monti hai trovato la regina
delle villeggiature, ove la gente
a larghe frotte e lieto pie cammina.

Qui il respiro dell'Alpe ampio si sente,
e canta i suoi begl'inni l'Abetina,
perenne orchestra, che poi la potente
voce del Cusna lancia alla marina.

Ridon le balze, e in ogni verde sponda
c'è un antro per la pace da cui scende
acqua per ogni fauce sitibonda.

Qui la vita in dolcezze si protende
ed una balda gioventù gioconda
per l'avvenire pianta le sue tende.

Umberto Monti


VISITATE CIVAGO

Visitate Civago, se desio
vi prende d'ombre fresche e di fontane,
che v'accompagneran per le montane
balze col lor perenne mormorio.

Visitate Civago, se d'oblio
han bisogno le vostre pene umane.
Quanto sollievo in quelle selve arcane,
e quanta pace ai margini d'un rio!

Visitate Civago. In miniatura
troverete una Svizzera ridente
d'ogni bellezza che può offrir natura,

e gente mite, d'ogni pregio adorna.
Chi visita Civago, non si pente,
e chi ne parte, sempre vi ritorna.

Umberto Monti


CIVAGO ED I SUOI BOSCAIOLI

Ampio cerchio di monti ti recinge,
Civago, e t'offre verdeggiante sfondo;
il passo chiude di tua chiostra al fondo
la torre d'Amorotto, muta sfinge.

Vanno i tuoi figli per le vie del mondo
né di ricchezza bramosia li spinge;
vanno siccome rondini cui stringe
autunno il cuore e aprile il fa giocondo.

Lascia gli abeti e i faggi il boscaiolo,
i monti varca, scende verso il mare
tra pini e lecci finché torni maggio.

Frene del cor la mesta sposa il duolo
cantando ai bimbi presso il focolare:
Babbo ritorna quando è verde il faggio.

Sante Romiti 

 

7 - Il professor Umberto Monti


IL PROFESSOR  MONTI

Sul prof. Umberto Monti, nativo di Cervarolo, insigne studioso di Letteratura italiana, responsabile della Biblioteca dell'Università di Genova, forbito oratore, valente poeta e scrittore, ci sarebbe da scrivere un intero volume.
I  suoi articoli, le sue conferenze, le sue numerosissime monografie di vario soggetto e, in special modo, la limpida purezza della sua originale poesia ci rivelano che il nostro personaggio è stato un autentico artista ed uno dei più eletti seguaci della Scuola Pascoliana.
Ma il grande amore per i suoi luoghi d'origine dette forza ed espressività a numerosi scritti, volti a rendere più cara e più nota la nostra montagna. Egli ha cantato i luoghi più significativi del nostro appennino: il Dolo e l'Ozola, Villa Minozzo, il suo "villaggio" Cervarolo, "Civago ai piedi dell'Alpe e del diruto Ravino", la Torre dell'Amorotto e poi S. Pellegrino in Alpe, La Sagra delle Forbici, II Cusna, Bismantova, Canossa, Selva Piana, Carpinetì, Toano, il Monte Ventasse, Ospedaletto, Ligonchio, Piolo e ancora una lunghissima teoria d'argomenti e soggetti da riempire pagine e pagine.
II continuo interessamento del Prof. Monti per i problemi dell'Appennino reggiano e gli sforzi da lui fatti per avviarne la soluzione gli hanno meritato, a buon diritto, l'appellativo di "Pioniere dell'Appennino Reggiano".
E se oggi tutti i Comuni della più elevata fascia appenninica, in particolare quello estesissimo di Villa Minozzo, sono allacciati dalla strada carrozzabile, se l'arteria delle Forbici è finalmente giunta a Civago, nel punto estremo dell'Alta Valle del Dolo, pensiamo che una parte non piccola di merito vada anche ad Umberto Monti che per decenni lottò, scrisse, parlò, visitò le più remote borgate, difese con coraggio le soluzioni caldeggiate anche davanti agli scettici ed ai denigratori.
La stessa Sagra del Passo delle Forbici, iniziata nel lontano 1924 e continuata per molti anni (nel 1933 alla Sagra fu associata la commemorazione del Pascoli e la stessa sorella del Poeta, Mariù, fu più volte presente alla manifestazione), in fondo non era che un mezzo per interessare l'opinione pubblica alla necessità dell'apertura di una rotabile tra la Valle del Dolo e la Garfagnana.
A proposito della "Strada delle Forbici", il Monti scrisse questo struggente sonetto che inserì nella raccolta "ULTIMO APPRODO" (1957).

L' ADDIO DI UN POETA

Agli amici

"Quando non sarò più, non mi cercate
in quelle poche pagine che scrissi,
dove riconoscente benedissi
le creature buone che ho incontrate.

Cercatemi in Civago e in Cervarolo
lungo la strada che sognai bambino,
sopra le rocce del sonante Dolo.

E là mi troverete, pellegrino
senza bordone, col mio sogno solo:
in quella strada è tutto il mio destino"

LA SAGRA DELLE FORBICI

A partire dalla prima domenica d'agosto del 1924, le popolazioni del nostro appennino Tosco-Emiliano iniziarono a salire sul Passo delle Forbici per invocare dalla Regina delle Alpi, che aveva in quei paraggi, nel lontano medioevo, Chiesa ed Ospizio, la benedizione sopra le loro terre, le loro case, il loro bestiame, le loro fatiche.
Verso la fine degli anni'30 - erano appena trascorsi 16 anni - la leggenda inizia a spuntare, a diffondersi, a compiacersi di dare all'evento una remota antichità. Toccò al prof. Monti ascoltare, presso il Casone di Profecchia, da un vecchio garfagnino, l'origine di quella Sagra.
Sul Passo delle Forbici, diceva costui ad un gruppo di persone che lo ascoltavano interessati, si radunavano, sin dai tempi più antichi, i pastori dell'uno e dell'altro versante. Lassù intrecciavano danze, si scambiavano doni e preparavano le nozze dei loro figlioli. Oggi quel rito è diventato cristiano e le popolazioni vi salgono per onorare la Madonna.
Se fatti così ravvicinati venivano in tal modo travisati e trasformati, com'è possibile - si chiedeva incredulo il nostro Monti - conoscere la verità su avvenimenti di molto più antichi? Non è semplice dare una risposta a questo interrogativo. Forse si era spinti a tanto dal bisogno di proiettare in un lontano passato l'esistenza di queste cerimonie per contornarle di poesia e di mistero.

Fissiamo, comunque, alcune date significative di questa manifestazione:
24.8. 1924 - rimo Convegno con Messa all'aperto. Scopo della manifestazione l'apertura (anzi il ripristino) della strada delle Forbici che resta ancora oggi un pio desiderio.
29.8.1926 - naugurazione della Cappella e della modesta rotabile che collega il Casone di Profecchia con l'Abetina Reale.
3.8.1933 - naugurazione del quadro rappresentante nostra signora delle Alpi, dipinto dalla pittrice lucchese Anita Martini, che seguì in tutto e per tutto la descrizione lasciata da Giovanni Pascoli. Data, quindi, l'origine pascoliana del quadro, si pensò di associare il nome del poeta a questa Sagra Alpestre. Gli oratori che si avvicendarono nelle diverse cerimonie furono:

- il Prof. Gabriele  Briganti nel 1933;
- il Prof. Cesare  Biondi nel 1934;
- il Prof. Arrigo  Fugazzanel 1935;
- il Prof. Giuseppe Lipparini nel 1936.


Dall'anno 1933 sale a questa Sagra di umili pastori la sorella del Poeta: Mariù Pascoli, la quale smise di farlo solo quando venne a mancare.
Nel 1936 si aggiunse un nuovo rito che accrebbe il valore simbolico e suggestivo della festa per aderire ad un voto del poeta. Egli aveva sempre auspicato che dinnanzi alla sua Madonna ardesse una lampada formata da un reggicoppa in ferro battuto, sostenuto da una triplice catena che porta iscritta intorno alla fascia il verso pascoliano: "io sono una lampada che arde soave".
Durante la Seconda Guerra Mondiale gli incontri pascoliani al Passo delle Forbici si interruppero. Negli anni '50 la Sagra fu ripristinata per qualche anno, finché, agli inizi degli anni '60, si mise inspiegabilmente fine a dette celebrazioni. Alle genti di Civago e di Castiglione di Garfagnana chiediamo: non ritenete che sarebbe moralmente urgente dare nuova vita - in modo continuativo - alla Sagra delle Forbici?
Essa era la Sagra più alta che si celebrasse in Italia con tanto concorso di popolo, tra le due maggiori vette dell'appennino settentrionale: il Cimone ed il Cusna, dinnanzi allo scenario delle Apuane a ponente, separate dalla profonda valle del Serchio, in un paesaggio superbo.