1 - Introduzione

INTRODUZIONE

La principale ragione, per la quale mi sono accinto a stendere queste note, è stata quella di raccontare le vicende del bosco e della gente di montagna di un suggestivo territorio dell'Appennino Reggiano:

l'Alta Valle del Dolo.
Nella prima parte di questo lavoro mi sono occupato delle origini di tale territorio, della sua natura, della vita e della storia dei suoi abitanti; nella seconda parte la mia attenzione si è rivolta alla storia ed alle vicende di una piccola, ridente località posta agli estremi confini di questa valle: CIVAGO.
La scelta di Civago ha obbedito ad una duplice esigenza: la prima si riferisce a certe sue caratteristiche che lo rendono affine agli altri paesi dell'Alta Val Dolo, la seconda riguarda la sua particolare ubicazione nel punto estremo della Valle, ubicazione che, per la sua vicinanza e, quindi, per i suoi stretti contatti con la Garfagnana, consentono al paese di proporsi come punto di sintesi e d'incontro di due tanto diverse quanto interessanti culture.
Civago, infatti, rappresenta da sempre la testimonianza più viva di come, nella sua gente, possono convivere, in piena sintonia ed armonia, costumanze toscane con abitudini e modi di vivere e di pensare caratteristici delle "genti lombarde", dalle quali gli abitanti del paese discendono.
Nella terza parte, infine, ho voluto ricordare, anche se un po' succintamente, una figura di grande spicco delle nostre contrade, un personaggio che ha dedicato tutta la sua vita a far conoscere e ad amare il nostro appennino: il Prof. Umberto Monti.

I PRIMI ABITANTI

Durante il "Pleistocene" (circa 12.000 anni fa) l'Alto Appennino Reggiano, e quindi l'intera valle del Dolo e del Secchia, era percorso da gruppi di cacciatori paleolitici.
La sopravvivenza di queste piccole comunità era affidata principalmente ad attività di caccia e raccolta derivata da una vita nomade. La loro presenza si riferisce al penultimo periodo glaciale, quando i ghiacciai si trovavano sulle cime dell'Appennino.
Gli insediamenti del Mesolitico (7/8 mila anni fa) sono quasi esclusivamente concentrati nell'alta montagna, in aree strategiche per la ricerca del cibo, presso i "passi", i laghi morenici ed i luoghi di passaggio e di sosta della selvaggina. Fra i più importanti siti si comprendono quelli ai passi della Comunella e di Lama Lite, dove gli scavi hanno messo alla luce interessanti reperti.
Con il neolitico (circa 3/5 mila anni fa) s'introduce una notevole differenziazione della presenza umana sul territorio, caratterizzandosi con una vita più sedentaria della popolazione dedita alla pratica dell'agricoltura.

La prima età del bronzo (circa 1800-1450 anni fa) è documentata dal ripostiglio d'asce bronzee a Monte del Gesso. Propaggini della cultura terramaricola sono state rinvenute a Castellarano. E' solo nella tarda età del Bronzo (circa 1100 - 900 avanti C.) che l'Appennino vede il sorgere di numerosi villaggi, piccoli e medi, tra Bismantova e Felina e, poco più tardi, nelle immediate vicinanze di Villa Minozzo.

TESTIMONIANZE ROMANE

Una testimonianza di un certo rilievo della presenza Romana nella montagna reggiana è rappresentata dalla necropoli della Gatta (Castelnuovo Monti). La montagna, in particolare l'alto Appennino, fu teatro per lungo tempo di una lotta molto impegnativa tra i Romani e le popolazioni autoctone dette "FRINIATES", che furono definitivamente sconfitte nel corso delle guerre Ligustine. La colonizzazione romana, inizialmente, si distribuisce nell'arco dei primi rilievi collinari, riscontrandosi spesso in corrispondenza di luoghi abitati già in epoche preistoriche e concentrandosi in prossimità dello sbocco delle valli nella pianura. In epoche successive i coloni romani si spingono verso l'alto, addirittura guadagnando il "crinale", per cercare passaggi e sbocchi verso la terra della vicina Etruria.
Altre interessanti testimonianze si ricavano dagli scritti di uno storico del "700", Lorenzo Gigli, il quale, nel suo "VOCABOLARIO ETIMOLOGICO TOPOGRAFICO E STORICO DELLE CASTELLE, ROCCHE, TERRE E VILLE DELLA PROVINCIA DEL FRIGNANO", afferma che con l'accezione "Civago", in antico, non si voleva indicare un "paese", bensì una larga estensione territoriale, quale un "Distretto", per meglio intenderci.
Si riporta, qui di seguito, uno stralcio di quanto il Gigli afferma in un interessante capitolo della sua opera:
"nel Distretto di CIVAGO, territorio in cui si trovano alte montagne, vi era una grande torre erettavi da Pompeo Magno, dove il grande generale romano si era rifugiato a seguito delle sonore sconfitte inflittegli da Giulio Cesare. Dopo di lui si erano colassù ritirati Fabio Massimo e Cassie che pensarono di trovare rifugio in quei luoghi pressoché inaccessibili.
Il Gigli riferisce che queste straordinarie notizie erano contenute in due tavole di bronzo, rinvenute in quei luoghi e poi date in custodia alla famiglia dei Principi Massimo di Roma. Lo storico conclude che può ben anche credersi, come assai verosimile, che molti altri Romani o in questa, o in varie altre occasioni, si fossero ritirati in quei tenitori.
Si può, quindi, tranquillamente affermare che la "Torre dell'Amorotto", nell'epoca in cui l'Amorotto vi si era insediato, non altro era che l'ultima versione di un fortilizio che in precedenza fece parte del più articolato complesso del Castello delle Scalelle. Andando ancor più a ritroso nel tempo la torre, come già sopra specificato, era stata addirittura eretta e posseduta da personaggi che, con grande nostro stupore, rispondono ai nomi di Pompeo Magno, di Fabio Massimo e di Cassie.
Alla disgregazione e caduta dell'Impero Romano, fanno seguito i domini barbarici e le campagne militari bizantine che riportano l'autorità imperiale nella penisola, dopo la distruzione del Regno Gotico del 533. Pochi anni separano questa data dall'invasione dei Longobardi, nel 568, che segnerà un profondo e decisivo rivolgimento nella storia d'Italia e del nostro territorio.
Tra il VI0 ed il VII0 secolo il crinale ed i primi contrafforti dell'Appennino reggiano si articolano in una linea difensiva di confine tra Longobardi da un lato e Bizantini dall'altro. Il nostro territorio è tra questi e incomincia a risentire, sin da allora, degli effetti negativi dovuti a continue scorrerie e scontri tra i contendenti. E' il destino delle terre di confine!
Le prime testimonianze dell'insediamento storico nella montagna risalgono, infatti, a questo periodo. Alle tipiche caratteristiche rurali essi associano anche il ruolo d'avamposti di una colonizzazione. Il popolamento della collina e della montagna reggiana va ascritto, per la gran parte, all'espansione longobarda che si protrarrà sino alla metà del X° secolo. Pievi, monasteri, abbazie, non solo reggiane ma anche di tenitori vicini, iniziano a creare altri organismi curtensi, nonché una serie di microinsediamenti. Già nel 781 un presunto Diploma Carolino ci descrive i confini meridionali della Diocesi reggiana attestati sul crinale. La Chiesa estende ora la sua organizzazione ecclesiastica attraverso la costituzione delle Pievi. Il Diploma di Ottone 11° nel 960 segnala 11 Pievi nel collemonte: Albinea, Bibbiano, Bismantova, Castellarano, S. Polo, Paullo, Minozzo, Puianello, S. Valentino, S. Vitale di Verabolo, Toano. L'unità territoriale è suddivisa in pievi, Cappelle, Castelli e corti, spesso coincidenti. Il caposaldo di Canossa, costruito da Atto Adalberto nella prima metà del X° secolo, diventa un centro sistema difensivo a controllo delle vallate appenniniche e della pianura.
L'Appennino esercita un'importanza primaria nell'economia reggiana. La viabilità montana, spesso ricalcando antichi percorsi, assicura la regolarità dei traffici con la Toscana.
Una strada che in quei tempi aveva tali caratteristiche era la "Via delle Forbici".
Nei punti di più frequente passaggio, quali i valichi, od i ponti ed i guadi, si trovano gli "Ospedali" per l'assistenza ai viandanti ed ai pellegrini.
Uno dei primi "Ospedali" dell'Alto Appennino Reggiano fu quello che sorgeva in prossimità di un guado del fiume Dolo, a circa 3 Km. Dal Passo delle Forbici.
Ancora agli inizi dell'800 Filippo Re, nel corso di un suo viaggio agronomico nella montagna reggiana, così ci descrive la funzione di un Ospizio posto nell'Alto Appennino Reggiano:
"quello che lo rende interessante è l'asilo che è tenuto il Parroco a prestare agli smarriti pellegrini; perciò è obbligato a far suonare ogni sera, per un certo tratto di tempo la campana e a tenere acceso un fanale sulla torre".
Chiudiamo questo brevissimo "excursus" sulla storia del nostro Appannino nell'alto medioevo ricordando Matilde di Canossa, la cui figura s'impone tra i personaggi di quel tempo in tutta la sua grandezza per l'influenza e per la profonda illuminata saggezza con cui seppe gestire il suo vasto potere su gran parte delle nostre montagne.

LA VIA DELLE FORBICI

Fin dai tempi più antichi i tenitori dell'Alta Valle del Dolo erano attraversati da una via che collegava l'Alta Garfagnana con i paesi del reggiano.
Questa strada si staccava dalla Via Imperiale, in prossimità della Maestà di Campori in Garfagnana, attraversava il Rio Castiglione, seguiva per Castiglione di Garfagnana e, passando presso l'Ospizio di S. Maria della Buita, detto anche di S. Maria dell'Alpe, si portava al Passo delle Forbici.
Superato il valico, la Via delle Forbici si divideva in due rami: uno di minore importanza piegava verso il Passone per dirigersi alla volta di Minozzo e Bismantova, l'altro scendeva verso l'Ospizio di S. Leonardo al Dolo e, proseguendo per le Scalelle, toccava Gazzano; quindi passava per Quara e attraversava il Secchia al ponte di Cavallo (oggi Cavola).
Proseguiva, infine, sino a Reggio. Gli avanzi di una via romana, trovati a Quara, potrebbero benissimo essere messi in relazione con l'antichità di questa strada.
Non vi è dubbio che la Via delle Forbici, fin dai tempi più antichi, rappresentava il percorso più agevole per coloro che dalle terre del reggiano volessero recarsi in Lucchesia. Riportiamo, qui di seguito, due interessanti episodi legati alla storia della Strada delle Forbici.
Il primo, contenuto in un manoscritto custodito nell'Archivio del Comune di Modena, narra che:
"durante l'inverno 1306 - 1307 cadde molta neve sull'Appennino. La Via Bibulca, che collegava il versante appenninico modenese con la Garfagnana attraverso l'Alpe di S. Pellegrino, non essendo stata sgombrata, rimase chiusa al transito, con danno del commercio che, invece di svolgersi tra Lucca e Modena, s'intratteneva tra Lucca e Reggio Emilia, mediante la Via delle Forbici, la quale, grazie all'abnegazione degli abitanti della vallata, era stata aperta ed era costantemente mantenuta libera dalle nevi".
Il secondo episodio, che risale ad epoca ancor più remota, narra che nell'anno 1240 il Podestà Gerardo di Reggio Emilia dovette intervenire a favore di alcuni commercianti toscani di Fucecchio i quali, mentre percorrevano la strada che dal Passo delle Forbici li guidava verso il territorio reggiano, furono depredati di tutti i loro beni da un gruppo di loschi individui di Cazzano, Cervarolo, Novellano, Romanoro, Fontanaluccia, Febbio, Asta e Morsiano. Il luogo dell'aggressione era situato nelle immediate vicinanze dell'Ospizio di S. Leonardo al Dolo.
Il Podestà di Reggio Emilia tassò a favore dei toscani una somma da ripartire a carico dei Comuni e degli uomini responsabili della rapina. Parallelamente ordinò ai Comuni ed agli uomini citati di restituire agli abitanti di Fucecchio ciò di cui furono depredati durante il loro viaggio in territorio reggiano.
Questo episodio, contenuto nel "LIBER GROSSUS ANTIQUUS" (Raccolta di Regesti medievali del Comune di Reggio Emilia), evidenzia, con ampiezza di particolari, l'importanza che rivestiva in quei tempi lontani la strada delle Forbici per gli scambi commerciali tra le popolazioni toscane e quelle del versante reggiano.

SULLE TRACCE DI UNA STRADA PERDUTA

La Via delle Forbici cessò di svolgere la sua preziosa funzione di raccordo tra la Lucchesia ed il Reggiano quando alcune arterie delle province limitrofe, opportunamente ammodernate e ampliate, si sostituirono ad essa nello svolgimento di tale funzione.
La nostra strada, che ebbe la cattiva sorte di non essere passata attraverso tali trasformazioni, nel volgere di breve tempo cadde nel più completo abbandono.
Nel passato, quando l'abitato di Civago non era stato ancora raggiunto dalla strada asfaltata, quest'antico sentiero costituiva l'unica arteria attraverso la quale era assicurato il collegamento con la provincia di Lucca.
Quando il paese fu raggiunto dalla carrozzabile, la Via delle Forbici avrebbe potuto riacquistare il suo antico prestigio se fosse stato aperto il collegamento con la Garfagnana, attraverso il Valico del Passo delle Forbici.
Tale evento, purtroppo, non ebbe a verificarsi in quanto un autorevole personaggio politico della provincia di Modena si adoperò (e vi riuscì) affinché la nostra strada avesse il suo sbocco in Garfagnana, non tramite il Passo delle Forbici, ma attraverso un diverso percorso che, con l'utilizzo del Passo delle Radici, andava a privilegiare i flussi delle strade modenesi, a tutto scapito di quelle reggiane. Si trattò di un vero e proprio colpo di mano, ottenuto con l'apertura del tronco di strada Civago - Piandelagotti realizzato, tra lo stupore generale degli abitanti di Civago, in tempi brevissimi.
Con tale iniziativa, non venne meno unicamente la realizzazione della tanto vagheggiata Strada delle Forbici, ma venne anche a svanire per sempre la speranza che non si sarebbe mai più realizzata, per l'intero comprensorio dei bacini del Dolo e del Secchia, quella ripresa di carattere economico e culturale su cui tanto avevano contato tutti coloro che nel passato e in tempi più recenti si erano battuti per la STRADA DELLE FORBICI.

IL CASTELLO DELLE SCALELLE E LA TORRE DELL'AMQROTTO

II Castello delle Scalelle, che includeva quella costruzione a forma cilindrica, chiamata in seguito "Torre dell'Amorotto", era posto in un'indovinatissima posizione lungo la dirupata sponda sinistra del Dolo, fra Cazzano e l'Ospizio di S. Leonardo del Dolo, a circa 2 km. dall'odierna Civago.
Civago in quel tempo, pur non esistendo come paese, incominciava ad essere rappresentato da un piccolo concentrato di capanne estive, che costituivano rifugio e stazioni avanzate per i numerosi pastori di Cazzano, da sempre proiettati verso i pascoli alpini della valle sino agli estremi confini del crinale.
Tornando alle "Scalelle", fino a qualche tempo fa, e forse ancora oggi, un appezzamento di terreno appartenente alla prebenda parrocchiale di Cazzano, situato in quel posto, porta il nome di "Scalelle".
Il Castello ed il territorio circostante erano retti dalla nobile famiglia "Da Dallo", d'origine garfagnina, padrona anche di Piolo. Ghibellino e Lombardino Da Dallo, sul principio del XIV0 secolo, possedevano già il feudo delle "Scalelle", da cui dipendevano le Ville di Cazzano, Cervarolo, Novellano ed Asta.
Riteniamo che la funzione della Rocca fosse essenzialmente quella di sentinella avanzata, posta nel cuore dell'Alta Valle del Dolo, per vigilare il Passo delle Forbici, che metteva in comunicazione i tenitori reggiani con la Lucchesia.
Il nobile Domenico De Bretti, più noto col nome paterno di "Amorotto", lasciò, all'inizio del 1500, la Rocca avita di Carpineti (da cui la sua insigne famiglia proveniva), per scorazzare in lungo ed in largo attraverso i paesi dell'Alto Modenese e nel Reggiano orientale.
Rimane ancora oggi legato al suo nome quel rudere di Torre situata, come abbiamo dianzi affermato, sulla sponda sinistra del Dolo, nei pressi di Civago.
In effetti, l'Amorotto s'impossessò della Torre, ormai abbandonata dalla famiglia Da Dallo, verso la fine del 1400, periodo a partire dal quale il fortilizio assunse la denominazione di "Torre dell'Amorotto".
Il momento di massimo fulgore, per quest'originale "uomo d'arme", coincise con il tempo del dominio papale su Reggio Emilia, periodo che va dal 1513 al 1523.
I giudizi degli storici su tale personaggio sono abbastanza discordi; per alcuni fu un leggendario e sfortunato difensore dei tenitori appenninici dalle mire degli Estensi, per altri fu soltanto un bandito senza scrupoli, assetato di vendette e di sangue. Per noi fu un po' l'una e un po' l'altra cosa, fu senz'altro un individuo schiacciato da eventi e da responsabilità più grandi di lui.

A corredo di quanto abbiamo esposto, ed allo scopo di completare ed arricchire, per quanto sia possibile, la storia di questa singolare testimonianza della nostra Valle, si riporta, qui di seguito:
1 -  il testo di un'ispirata poesia del poeta e scrittore Umberto Monti dedicata alla Torre dell'Amorotto;
2 - copia di un disegno a "china", dove spicca la forma originaria della Torre dell'Amorotto (opera eseguita, prima del violento terremoto del 6/7 settembre 1920, da un valente pittore di Civago: Settimo Romiti);
3 - un'interessante "cronaca di viaggio" scritta dal Segretario del Vescovo Picenardi di Reggio Emilia, che fece visita alla Cappellania di Civago il 6 settembre 1707;
4 -  in fine un brevissimo racconto, tramandatoci sempre da Umberto Monti, su una fantasiosa storia riguardante poteri magici attribuiti, dalla credulità popolare, alla Torre dell'Amorotto.


TORRE DELL 'AMOROTTO

Torre, c'hai visto secoli di ferro,
e scompigli di sangue e di paura,
sui pinnacoli che ti diè natura
fosti rifugio al ladro ed allo sgherro.

Dalla tua Rocca non camoscio o verro
scrutavi, non colomba malsicura,
ma l'inerme viandante, e le tue mura
eran tomba per l'uomo, s'io non erro.

Passan gli uomini e gli anni e tu resisti
pur contro il vento ch 'urla tra l'aride forre
e nell'orror fierezza acquisti.

Né verdura né canto ti soccorre,
né nido sopra i tuoi ruderi tristi,
o sopra il Dolo abbandonata torre

UMBERTO MONTI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIAGGIO A CIVAGO DEL VESCOVO PICENARDI (6.9.1707)

"Partendo da Gazzano verso Civago ci s'inoltra nelle viscere dell'estremo appennino attraverso dirupi scogliosi con precipizi da destare le vertigini ed è giocoforza affidarsi ciecamente alla pratica dei cavalli alpini; nel viaggio ci si affaccia la 'Torre dell'Amorotto", ormai in dissoluzione, ma nei secoli passati abbastanza formidabile e si dice costruita da Castruccio Castracani; occupata a suo tempo dal celebre "Amorotto", che le diede l'attuale suo nome.
II Vescovo vi passò senza inconvenienti, benché nel ritorno vi fu sorpreso da improvviso rovescio d'acqua.
(da "Appunti di viaggio" scritti dal Segretario del Vescovo Picenardi)
N.B.
Tra i personaggi storici che furono interessati, direttamente o indirettamente alla Torre dell'Amorotto dobbiamo segnalare:
1)  POMPEO MAGNO (lo storico Lorenzo Gigli riferisce che due tavole di bronzo rinvenute nei pressi della Torre attestano che la stessa fu eretta dal grande Generale Romano);
2)  le stesse tavolette attestano, altresì, che nella torre si rifugiarono anche altri 2 personaggi dell'antica Roma: FABIO MASSIMO e CASSIO;
3)  CASTRUCCIO  CASTRACANI  (Condottiero  Italiano  e  Signore  di  Lucca -1281/1328) vi sostò più volte;
4) LUDOVICO ARIOSTO (noto poeta Italiano e Governatore della Garfagnana per conto del Duca Alfonso D'Este) sostò più volte anch'egli nella Torre.



I TESORI DELLA TORRE DELL'AMOROTTO

Anche la Torre dell'Amorotto ha le sue leggende. Si è sempre parlato di un antico tesoro sepolto ai suoi piedi. Ma guai a chi avesse tentato di impossessarsene. Una volta, per scommessa, due baldi giovani di Civago s'incaponirono nell'impresa Fattosi buio profondo, con piccone e badile, incominciarono a scavare. Già credevano di essere a buon punto, allorché un'immensa fiammata bituminosa si sprigionò dalla buca, avvolgendoli in un fumo infernale e costringendoli ad una fuga pazzesca.
A lungo vagarono sui pendii circostanti, urlando e sperdendosi. Furono trovati il mattino dopo, tramortiti a terra , neri come il carbone e senza parola. Quando, qualche ora dopo, poterono esprimersi fecero capire che il diavolo li aveva assaliti, rimanendo alle loro calcagne tutta quella notte di tregenda.
Intorno alla Torre dell'Amorotto si favoleggia anche questo:
nelle notti di luna piena, quando la sottostante vallata sembra illuminata a giorno, e il fiume corre laggiù luccicando, come una fascia di mercurio, un caprone dalle forme gigantesche si aggira per quei ruderi.
Qualcuno afferma di averlo visto in varie occasioni e spiega che l'animale fa la guardia al famoso tesoro.



L'OSPIZIO DI SAN LEONARDO DEL DOLO

1 - Note storiche sull'Ospizio
II viaggio ha sempre richiesto la presenza di luoghi di ospitalità per viandanti e pellegrini, soprattutto in corrispondenza di valichi in alta montagna. Sin dall'Alto Medio Evo si era andata creando un'efficiente rete d'ospitalità viaria, al punto che l'ubicazione degli "Ospizi" ha consentito, in tempi recenti, di ricostruire i tracciati di antiche strade.
Meritano particolare rilievo "Ospedali" della montagna a servizio degli itinerari diretti ai valichi dell'appennino.
Un manoscritto dell'Archivio Vescovile di Reggio Emilia attesta che sul versante reggiano della strada delle Forbici, a circa 3 Km. dell'odierna Civago, sorgeva un Ospizio denominato "Ospizio di San Leonardo del Dolo".
Tale manoscritto attesta, altresì, che un Oratorio, annesso all'Ospizio, era stato consacrato prima dell'anno 1.191. L'Ospizio di San Leonardo sul fiume Dolo assicurava, quindi, una sosta lungo la Via che da Reggio Emilia conduceva a Lucca per il valico delle Forbici.
Il suddetto manoscritto riferisce, inoltre, che l'Ospizio da tempo antico accoglieva i viandanti ed i pellegrini d'ogni condizione che transitavano da quelle parti. Questi, per l'asprezza dell'alpe e per la grande distanza dai luoghi abitati, erano nell'Ospizio stesso alloggiati, rifocillati di pane e di vino, e confortati d'altre comodità. Il testo originale di questo brano - che riportiamo qui di seguito,

riesce, nel suo latino essenziale, a trasmetterci l'atmosfera e la magicità di quei tempi così ricchi di fascino e di mistero:
"...........Olim    in hospitali pauperum Sancti Leonardi de Gazano Reginensis Diocesis intra alpes, in loco dicto ad Dolum, iuxta viam per quam de civitate Reginensis ad civitatem Lucanam itur, sito, antiquitus etìam ab illius fundatione peregrini et alii cuiuscumque conditionis illac transeuntes, prò tempore consuevissent de necessitate, propter dictarum alpium asperitatem et longam ab hominum habitatione distantiam, hospitalitatis, necnon panis et vini ac aliis comodis refici et recreari............"
Va sottolineato, altresì, che il gestore dell'Ospizio doveva attenersi a delle precise regole di condotta che stabilivano, tra l'altro:
*    di fare l'elemosina ai pellegrini che continuassero il viaggio;
*    di rifocillare e alloggiare chi vi pernottava;
*    di suonare a lungo una campana ad un'ora di notte per richiamare qualche eventuale viandante sperduto;
*    di far celebrare, nell'Oratorio annesso all'Ospizio, una messa settimanale.

L'Ospizio di San Leonardo del Dolo fu per centinaia d'anni un prezioso punto di riferimento per coloro che percorrevano la Via delle Forbici in prossimità del valico.
L'Ospizio per varie cause, non ultima quella di liti continue tra i vari Rettori ed i responsabili delle Pievi dai quali l'Ospizio stesso dipendeva, cessò ogni sua funzione, con la conseguenza che, di lì a poco tempo, gli edifici, essendo stati lasciati nel più completo abbandono, finirono per crollare. Correva l'anno 1.442.
Dopo secoli di silenzio e d'oblio si tomo a parlare dell'Ospizio, o comunque delle terre annesse a quello che un tempo fu l'Ospedale di San Leonardo del Dolo, nell'agosto del 1.849. In quell'anno il Duca Francesco V° d'Este visitò Civago, alloggiando nella Canonica del paese. Il Rettore della Chiesa, don Antonio Rossi, la sera, dopo cena, tra un bicchiere e l'altro di Aleatico, chiese al Duca di cedere alla Chiesa di Civago un appezzamento di terreno situato sulla sinistra del Dolo, in località che, ancora oggi, si chiama semplicemente "il Dolo" o "Case del Dolo".
In questa località, come abbiamo già precisato, sorgeva l'Ospizio di San Leonardo del Dolo.
Il Duca, che doveva essere di buon umore, glielo promise e mantenne la promessa nell'anno successivo.
Oltre ad un grande appezzamento di terreno, il fondo comprendeva anche una costruzione in sasso nota ai più come la "Cà del pret", edificio eretto nei primi anni del "700" con i ruderi del vecchio "Ospedale".

2 - L'Ospizio oggi
Nell'anno 2004, l'Ospizio di San Leonardo del Dolo, grazie agli interventi del Parco del Gigante e del Comune di Villa Minozzo, è tornato a vivere la sua seconda vita su quella sponda del Dolo, ai piedi delle Forbici, dove sorgeva tanti secoli or sono. La ricostruzione e la riapertura dell'antico "Ospitale" di San Leonardo del Dolo (riapertura e ripristino ovviamente effettuati nell'ottica delle odierne esigenze) segnano una marcata inversione di tendenza rispetto ai lunghi momenti di abulia e d'indifferenza vissuti negli ultimi tempi dalle popolazioni dell'Alta Valle del Dolo.
Il fatto, poi, che i giovani gestori del nuovo Ospizio abbiano in programma il ripristino di quel tratto della Via delle Forbici che dal vicino guado del Dolo conduce al valico, è da considerarsi un'iniziativa di particolare interesse e tale da meritare una grande attenzione da parte di tutti.