4 - I percorsi della religiosità popolare

I PERCORSI DELLA RELIGIOSITÀ' POPOLARE

LE MAESTÀ'

Sugli isolati percorsi e sui passi del nostro appennino, lungo i sentieri impervi, negli spiazzi delle borgate o ai margini delle strade, dei ponti, dei campi, dei crocevia, sono ancora visibili, e oggetto di devota attenzione, quelle caratteristiche piccole costruzioni in pietra chiamate indifferentemente "tabernacoli", "edicole", "pilastrini", "maestà".
La funzione di queste piccole costruzioni si rifa alle consuetudini agricole risalenti a prima della cristianità. Costituivano oggetto di culto pagano e di rassicurazione per il viandante, ma anche un preciso punto di riferimento per individuare un luogo, un confine.
Con l'avvento del cristianesimo dalle "nicchie" delle "Maestà" emergono figure care alla nostra fede: dipinti di madonne o del Cristo crocefisso, oppure la statuetta
di un Santo (generalmente S. Antonio da Padova, prodigo di miracoli, o S. Antonio abate, protettore degli animali domestici e da lavoro).
Sono testimonianze antiche di fede popolare che il tempo non ha cancellato. La riconoscenza per una grazia ricevuta ne ha suggerito spesso la costruzione; altre volte, invece, determinanti sono stati e il senso della paura e il bisogno di protezione lungo il tragitto ritenuto gravido di insidie e di pericoli. In ogni caso, i nostri antenati, carichi di fatica e di miseria, confidavano che la sacra immagine tenesse lontano dalle loro case e dai ripidi pendii dei loro campi il fulmine e la tempesta, e propiziasse, inoltre, un discreto raccolto.
Erano, quindi, opere legate alla vita dell'uomo e ognuno di noi, tornando non molto indietro nel tempo, frugando nella memoria, ha la sua "Maestà" alla quale ha confidato un pensiero.
Oggi, però, tabernacoli ed edicole, pilastrini e maestà appaiono prevalentemente come opere d'effetto, forse per il loro posizionamento in punti panoramici o suggestivi. La stessa corsa all'opera di ripristino delle vecchie maestà scomparse o dirute ha un profondo significato di lavorio culturale, che riteniamo sì molto importante, ma che non può restituirci le antiche emozioni che il nostro animo provava alla loro vista..
Per ricuperare il significato di tali opere e il messaggio che il committente ha voluto affidare ad esse occorre riacquisire quella dimensione del cammino connessa alla stessa costruzione della maestà, segni sistemati nei percorsi (mulattiere, sentieri) per non smarrire la strada, ma, soprattutto, segno, durante un viaggio, della presenza di Dio. Allora, da una sosta silenziosa di fronte ad una maestà, forse riusciremo a percepire chiaramente il messaggio di un mondo nel quale la religione costituiva l'elemento centrale della vita.

LE RITUALITA' STAGIONALI

Le ritualità stagionali in montagna sono intimamente collegate alle "Rogazioni". Rogazioni "maggiori"., che si svolgono nel giorno di S. Marco e Rogazioni "minori" (quelle che più interessano l'Alto Appennino Reggiano) al tempo dell'Ascensione. Le Rogazioni "minori" ripetono i "Robigalia" di età romana.
Esse seguono percorsi segnati da preesistenti indicazioni sacrali e sono intese a ripetute benedizioni sulla prosperità della campagna e sui segni stessi della religiosità locale.
E' interessante sottolineare come in vaste zone del nostro appennino le Rogazioni minori, per lo più cadenti al principio di maggio, finissero per assorbire le ritualità relative al giorno di S. Croce, che cade il 3 maggio. In questo giorno si allestiscono le crocette lignee da porsi a protezione dei campi.
In alcune zone sono ancora attuali le processioni del Cristo morto, il Venerdì Santo, accompagnate da simbologie del fuoco. Mentre la processione si svolge all'aperto, le cime delle alture circostanti brillano dei roghi accesi; lo stesso percorso è illuminato da roghi posti ai margini della strada ed ai crocicchi. Addirittura in taluni paesi, al termine del rito, si da fuoco ad un grosso falò, attraverso il quale saltano i giovani: che è quanto di più arcaico si può immaginare.
La contaminazione è evidente: ma è un modo primitivo di partecipare con simbologia lustrale al rito cristiano; e, forse più che contaminazione, è puro assorbimento.
Forse che la simbologia del fuoco non è stata assorbita dalle processioni notturne, proprie di determinate celebrazioni cristiane, mediante l'accensione di candele e di torce?
Tornando alle Rogazioni "minori", rinviarne alle pagine che seguono, in un apposito capitolo della storia di Civago, la descrizione di un interessante quanto singolare cerimonia che si teneva presso tutte le borgate del paese nella settimana che precedeva la festa dell'Ascensione.

I PELLEGRINAGGI E LA STRADA

La strada ed il viaggio sono i grandi protagonisti dell'epoca medievale. Dopo l'anno mille vengono ripristinati antichi tracciati, con l'apertura di nuovi e più celeri collegamenti. Uomini e merci si muovono con intensità. La mobilità dell'uomo medievale è incessante, per niente limitata dalla scarsità dei mezzi e dall'asperità dei luoghi.
Il pellegrino è sempre in viaggio. Per lui viaggiare è più che un abito di vita; è vivere la metafora del destino dell'uomo che "cammina" verso la morte per la salvezza.
Qual'era il grado di correlazione tra le genti dei nostri paesi e le ansie di spostarsi e di peregrinare propri dell'epoca medievale?
Narrano le fonti che ancor prima dell'anno mille torme di pellegrini, provenienti dalle valli del Secchia e del Dolo, diretti al celebre Santuario di S. Pellegrino, percorrevano la Via delle Forbici, sino all'altezza dell'odierna Civago, per poi piegare verso l'Ospizio di S. Geminiano, da dove raggiungevano il Santuario, dopo aver valicato il Passo delle Radici.
Quest'itinerario non veniva seguito da coloro che dimoravano in prossimità del crinale. Le popolazioni di Ligonchio e di Piolo, ad esempio, il crinale lo percorrevano tutto con una marcia di 7 ore, toccando i passi di Pradarena, delle Forbici, e delle Radici.
Per tali spostamenti veniva privilegiato, ovviamente, il periodo estivo. La gente dell'Alta Valle del Dolo, infatti, solevano portarsi a S. Pellegrino nei mesi di luglio e di agosto. L'11 agosto, giorno in cui ricorre la festa di S. Lorenzo, gli abitanti dell'Alta Valle del Dolo (vedi anche Civago) si recavano a S. Pellegrino in forma ufficiale, con tanto di sacerdote e di appartenenti alle Confraternite.
Un altro Santuario che le popolazioni dell'Alto Appennino Reggiano solevano raggiungere in pellegrinaggio era situato a Pietravolta. Oggetto di venerazione era un quadro della Madonna cosiddetta di Pietravolta, dal nome della località dove il Santuario era ubicato. Il pellegrinaggio ufficiale a Pietravolta si svolgeva nella prima domenica di maggio.

IL TEATRO POPOLARE

LO SPETTACOLO DEL "MAGGIO" NELLA MONTAGNA REGGIANA

Tra le forme teatrali primitive, che ancora da noi hanno formato oggetto di curiosità ed attenzione da parte degli studiosi, è da annoverare, senza alcun dubbio, la celebrazione dei "Maggi". Questi spettacoli, che riconducono indietro di parecchi secoli e che ferino rivivere con l'ingenua mentalità dei celebranti l'epoca dei poemi cavallereschi, hanno indubbiamente una tradizione e ritornano di attualità specialmente in questi ultimi tempi in cui si cerca di risuscitare quelli che furono i costumi e le abitudini di un tempo. Il suo carattere primitivo è dato principalmente da un'area campestre, con l'immancabile cornice di fronzuti castagni e di pubblico vario e multiforme, partecipe e interessatissimo allo spettacolo.
La quasi totalità dei "Maggi", che vengono rappresentati nella nostra montagna e nelle vicine vallate del Modenese e della Garfagnana, traggono origine da episodi tolti dall'Orlando Innamorato, dall'Orlando Furioso, dalla Gerusalemme Liberata, dai Reali di Francia, dal Guerin Meschino e da altre composizioni del genere e vengono adattati o ridotti dai cosiddetti "Compositori del Maggio", che tante volte sono anche i "suggeritori" durante lo spettacolo.
Di questi compositori, parecchi ne annovera la montagna reggiana ed i testi vengono tramandati di padre in figlio, di generazione in generazione. Costoro, come del resto gli attori o i "maggiaioli" o, ancor meglio i "maggerini", vivono nelle regioni più alte e più impervie dell'appennino reggiano. Le strofe di queste composizioni sono di regola formate da 4 ottonati a rima baciata, ma alle volte, vengono cantate anche in ottave.
Da strofa a strofa, poi, il canto è intramezzato da una nenia monotona che un violino ed una chitarra, od un clarino intonano dal principio alla fine senza mutarla mai. Tracciata così a grandi linee quella che è la struttura di questi teatri naturali, ci apprestiamo a descrivere qualcuno di questi spettacoli, senza diffonderci a narrare la trama dei vari episodi, ma cercando di farne ben comprendere le caratteristiche e gli sviluppi.
La celebrazione, che abitualmente ha luogo in uno spiazzo più o meno ampio, a seconda della località, si effettua in un'area a forma circolare, con pochi pali infissi nel terreno e congiunti con fili che delimitano grossolanamente l'area in cui si svolge lo spettacolo.
Seduti in terra in prima fila, a diretto contatto con i celebranti, ci sono i più accesi sostenitori, costituiti da parenti, amici e compaesani: "la claque". E a ridosso, su panche e sedie, i numerosissimi spettatori. Questa moltitudine, che non perde una strofa, applaude rumorosamente, facendo scricchiolare panche e sedie, mentre dalla sommità dei castagni, dove stanno appiccicati dei veri grappoli umani, si acclama a gran voce.
L'ampio cerchio, così delineato, è diviso in due campi: quasi sempre l'uno pagano e l'altro cristiano. Ora nell'uno, ora nell'altro luogo, si portano a svolgere la loro parte eroine e guerrieri. Agli estremi dei campi due cespugli con due tende raffigurano gli accampamenti. Due drappi colorati, piantati su bastoni infissi nel suolo: le bandiere. Cartelli indicatori, vergati senza tante pretese, informano: "campo pagano" o "campo cristiano". I re, dal portamento altero, impettiti e fieri della loro dignità, vestono a colori variopinti, in prevalenza rosso e giallo, con spalline in tinta colorate, sul capo una imponente corona di cartone e al fianco uno spadone di legno dai riflessi argentei, con un'elsa da tenere con due mani.
I guerrieri dei due campi, al seguito dei rispettivi comandanti, si differenziano per i colori delle giubbe.   Verde carico le une, giallo rossastro le altre.   Il pastore, che non manca mai in questi spettacoli, siede da un lato, al limite della saldatura dei due campi, appoggiandosi al malfermo bastone per cantare alcune strofe.
Da ultimo, quasi a rompere la monotonia dello spettacolo, stanno altri due personaggi immancabili nei "maggi": il buffone nella parte cristiana, tutto truccato e tinto, che non fa che motteggiare i guerrieri mussulmani, e che esce continuamente in cretinate che fanno sbellicare dalle risa gli spettatori. Poi c'è il "Diavolo", che agisce nell'altro campo. Questi è completamente vestito di color fuoco, porta un'acconciatura di pelo con le coma ed ha il volto annerito con polvere di carbone. H suo giungere è sempre preceduto dalle urla dei bambini, che in gran numero assistono allo spettacolo.
II pubblico dovrà far finta di non vedere il regista del "maggio". Infatti, seguendo l'azione, si ha modo di vedere anche il "suggeritore" che, con il manoscritto aperto in mano, si sposta continuamente dietro ai singoli personaggi per suggerire le prime battute della strofa, o per ricordare loro la sequenza dell'azione.   Sta scritto così nella tradizione orale
Questo è, in sintesi, il Teatro naturale dove si rappresenta il "maggio", con i suoi cavalieri coronati e le sue leggendarie eroine. Aggiungeremo che le rappresentazioni, che hanno sempre avuto inizio nelle prime ore del pomeriggio, terminano quasi sempre a sera inoltrata, senza la pausa di un minuto. E' interessante notare che al principio dello spettacolo, un "maggerino", con una fascia a tracolla, canta il prologo, come alla fine da l'addio, ringraziando in rima autorità e spettatori.
Durante l'azione si può vedere qualche inserviente aggirarsi tranquillamente tra i cantori e mescere loro vino in gran quantità per ristorare quelle gole arse dallo spettacolo interminabile. Dall'altra parte i guerrieri fumano beatamente sigarette o mezzi toscani, ma li posano quando, con rinnovato ardore, con la fronte madida di sudore, si alzano per cantare la loro parte o per azzuffarsi in singoli duelli con strepito di ferri legnosi e sbatacchiar di scudi di lamiere zincate.
Questi duelli, che avvengono tra coppie di 4/5 guerrieri degli opposti campi durano alcuni minuti e finiscono, quasi sempre, con l'uccisione simbolica di alcuni di essi, che il buffone si carica sulle spalle, in una caratteristica posizione a testa in giù, per portarli fuori scena.
Gli inservienti girano negli intervalli con dei bussolotti o con vassoi per raccogliere le offerte del pubblico che non si fa pregare, ma da largamente. Qualche hurrà viene lanciato dai protagonisti all'indirizzo di chi offre un fiasco di vino. Tanta è la serietà, l'ardore, l'ansia primitiva e sincera che i protagonisti mettono per la riuscita dello spettacolo che finiscono per trasmettere la loro commozione negli spettatori.
Il 7 dicembre 1997, per la prima volta nella storia di queste rappresentazioni, una recita del "Maggio" è approdata a Milano, al Teatro dell'Arte di Viale Alemagna.
Si è trattato del "Macbeth", un "maggio" di Romolo Fioroni, cantato da "maggerini" di Costabona, liberamente tratto dall'omonima tragedia, nell'ambito della Rassegna: "Shakespeare a Milano", organizzata dall'Assessorato alla Cultura del Comune lombardo.
Come abbiamo sottolineato, "questo rito" si svolge all'aperto con le caratteristiche sopra descritte.
Nell'occasione, invece, calate in una dimensione metropolitana, l'azione scenica e la declamazione cantata in versi costringe il pubblico ad una insolita disposizione circolare sul palco ed in platea.
Per concludere, da recenti ricerche si è appreso che il "Maggio" sia stato importato dalla Toscana in Emilia da lavoratori stagionali, quali pastori e taglialegna. Già il Pascoli, in una nota di commento ai "Canti di Castelvecchio" definì quei montanari che provenivano dall'Alto Appennino Reggiano: "alti, biondi, con occhi cerulei, veri longobardi, poveri e forti, immaginosi e poetici, grandi raccontatoti di fole a veglia".
Grandi raccontatoti di fatti straordinari dovettero essere stati, senz'altro, i nostri antenati se riuscirono ad esprimere, nei loro rustici e modesti luoghi, un così ricco impianto cultural-popolare quale veniva a proporsi la recitazione dei "Maggi".
Il "Maggio" ha antichissime origini e unisce l'aspetto pagano del Teatro greco a quello sacro delle Rappresentazioni medievali. E' qualcosa di più di una rappresentazione teatrale: è, in effetti, un rito e l'aspetto essenziale di tale espressione rituale sta nella lotta tra i due elementi principali che regolano la vita dell'uomo: il bene ed il male, e si risolve sempre con la sconfitta finale del secondo.

NOTE CONCLUSIVE DELLA PRIMA PARTE

Nel concludere questa prima parte della nostra "Ricerca", dove ci siamo occupati dei vari aspetti che riguardano la natura dei tenitori dell'Alta Valle del Dolo, nonché delle abitudini, delle attività e degli interessi di quelle popolazioni, avvertiamo la necessità di completare le nostre osservazioni affrontando una tematica del tutto inedita e particolare: il fiume Dolo nel suo interessante percorso dalle sorgenti al fianco destro del fiume Po.
Il fiume Dolo - fiume e non torrente, avendo del fiume tutti i requisiti - nasce ai piedi del Monte Vecchio, in quella parte dell'Appennino Reggiano che confina con le creste appenniniche della provincia di Lucca, di Massa e di Modena.
Il percorso del nostro fiume segue in modo inequivocabile un andamento rettilineo e parallelo alla linea di confine della provincia di Modena, disegnando una profonda vallata che, senza subire deviazioni, raggiunge la piana di Cerredolo. Il Dolo prosegue, poi, il suo corso sfiorando sul lato sinistro le città di Sassuolo e di Modena, per proseguire verso il Po, appena sotto la città di Manto va.
Il Dolo accoglie due importanti corsi d'acqua lungo la sua discesa verso il Po: uno sul lato destro con il torrente Dragone, che nasce nel modenese ed entra nel nostro fiume prima di Cerredolo; l'altro sul lato sinistro con il fiume Secchia , che nasce sotto il Passo del Cerreto.
Il Secchia, dopo aver tagliato in diagonale tutto l'alto appennino reggiano, entra nel Dolo appena sotto Cerredolo. Se si tiene conto delle caratteristiche idrico-strutturali, è il Dolo il vero affluente del Po e non il Secchia.
Se per un istante immaginiamo il fiume Dolo senza l'inserimento del Secchia, possiamo tranquillamente affermare che il nostro fiume proseguirebbe il suo percorso rettilineo sino al Po, disegnando una vallata dai contorni così regolari da costituire una perfetta linea di confine tra le province di Reggio Emilia e di Modena.
Verso la fine del settecento Filippo Re, illustre studioso reggiano di Agronomia, durante una visita alle Terme di Quara, nell'attraversare il Dolo all'altezza di Castagnola, definisce questo corso d'acqua fiume e non torrente poiché conduce sempre acqua e grandi sassi (a memoria d'uomo non si ricorda che il Dolo sia mai andato in secca).
Filippo Re osserva, inoltre, che è pericoloso guadare il Dolo in quanto i suoi sassi ingannano sovente chi, inesperto, crede di poter indifferentemente posare il piede sicuro sopra taluno di essi; ed è per ciò che - secondo il nostro studioso - per queste sue caratteristiche il fiume si chiamò e si chiama tuttora "Dolo".